I - Le Sezioni Unite su divisione ereditaria e disciplina urbanistica (Mauro Leo)
La Corte di Cassazione, con la sentenza a Sezioni Unite del 7 ottobre 2019 n. 25021, ha sancito che gli atti di scioglimento della comunione ereditaria relativi ad edifici, o a loro parti, sono soggetti alla comminatoria della sanzione della nullità prevista dall'art. 46, comma 1, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e dall'art. 40 comma 2, della legge n. 47 del 1985.
Nel lungo iter argomentativo, funzionale all'affermazione di tale principio, i giudici hanno definito la natura giuridica della divisione ereditaria, ritenendo che la stessa:
a) abbia natura di atto inter vivos e non mortis causa, non ponendosi lo scioglimento della comunione ereditaria quale atto conclusivo del fenomeno successorio bensì assumendo autonoma rilevanza rispetto allo stesso;
b) produca un effetto costitutivo, sostanzialmente traslativo, poiché con la divisione ogni condividente "perde la (compiroprietà sul tutto (che prima aveva) e - correlativamente - acquista la proprietà individuale ed esclusiva sui beni a lui assegnati (che prima non aveva)".
La pronuncia non viene resa per comporre un contrasto tra le Sezioni semplici della Cassazione ma, secondo quanto stabilito dall'art. 374 c.p.c., per risolvere una "questione di massima di particolare importanza". In materia di divisione ereditaria, invero, sussisteva un orientamento consolidato a partire dagli anni cinquanta - oggi avversato dalle Sezioni Unite - anche ribadito per fattispecie estranee alla materia urbanistica.
Fino alla pronuncia in esame era ius receptum della Cassazione che la divisione ereditaria, pur attuandosi dopo la morte del de cuius, costituisse l'evento terminale della vicenda successoria e, quindi, rispetto a questa non potesse considerarsi "autonoma", ovvero che essa avesse natura "dichiarativa, non costitutiva". Conseguentemente, ai sensi dell'art 757 cod. civ., ciascun coerede, dopo la formazione delle porzioni e la determinazione dei beni componenti le singole quote, subentrava soltanto nei rapporti giuridici relativi ai beni compresi nella quota a lui attribuita. O ancora che lo scioglimento della comunione ereditaria con assegnazione di un bene ad un condividente non fosse qualificabile come "atto di alienazione" e, quindi, non violasse il relativo divieto imposto dal testatore, in quanto l'effetto "dichiarativo-retroattivo" della divisione rende ogni comproprietario titolare di quanto attribuitogli fin dall'epoca di apertura della successione.
1. Posizione del notariato.
Non appare chiaramente individuabile, in assenza di un contrasto delle sezioni semplici, su quale aspetto vertesse la "particolare importanza" ravvisata e posta a fondamento dell'Ordinanza di rimessione (16 ottobre 2018 n. 25836) alle SS. UU..
Non sarà stata certo l'esigenza di porre un argine alla disapplicazione, più o meno generalizzata, della disciplina urbanistica in sede di scioglimento delle comunioni ereditarie, laddove si consideri che sull'applicabilità alla divisione ereditaria delle menzioni urbanistiche, il notariato ha da sempre condiviso i principi oggi sanciti dalle Sezioni Unite. Già nelle "Prime note" diffuse a seguito della legge n. 47/1985" ed anche nei successivi "Criteri applicativi" si legge infatti che "sono colpiti da nullità gli atti .... di scioglimento della comunione di diritti reali e quindi qualunque ipotesi divisionale che abbia ad oggetto immobili "abusivi", sia che la comunione nasca da atti fra vivi, sia da atti mortis causa".
A quanto consta peraltro la prassi notarile si è sempre attenuta a tale indirizzo, anche dopo le sentenze della Cassazione - richiamate dalla pronuncia odierna - che pure escludevano la divisione ereditaria dal perimetro delle norme urbanistiche interpretate.
Si ha quasi la sensazione che le Sezioni Unite, più che sulla questione urbanistica, abbiano inteso prendere posizione e procedere ad una (ri)qualificazione teorica della divisione ereditaria, tema questo finora prevalentemente confinato nell'ambito del dibattito dottrinale, dove è nato ed è stato variamente declinato.
2. L'iter argomentativo della pronuncia.
a) Lo scioglimento della comunione ereditaria quale atto inter vivos. Le Sezioni Unite hanno ritenuto di assoggettare lo scioglimento della comunione ereditaria agli articoli 40 L. 4 7 /1985 e 46 D.P.R. n. 380/2001, affermando che i presupposti applicativi della disciplina contemplati dalle due norme, siano estendibili anche alla fattispecie al vaglio.
A ciò giungono innanzitutto ritenendo che lo scioglimento della comunione ereditaria sia da qualificare quale atto inter vivos e non mortis causa, così da includerlo nell'incipit del precetto normativo degli artt. 40 e 46 citati ("Gli atti tra vivi ... ").
Attraverso l'interpretazione letterale e teleologica delle norme urbanistiche, non perfettamente coincidenti, ma contemplanti entrambe la divisione ereditaria tra gli atti tra vivi, la Corte afferma in particolare, che nulla autorizza a ritenere quanto segue:
- che la sanzione della nullità ex art. 40 co. 2 L. 47/1985 abbia un ambito oggettivo diverso da quella dell'art. 46 co. 1,
- che lo scioglimento della comunione ereditaria non sia contemplata nel perimetro dell'art. 40,
- che il legislatore abbia introdotto un regime circolatorio differenziato per gli immobili abusivi oggetto delle divisioni ereditarie, a seconda che siano stati realizzati prima o dopo il 17 marzo
1985.
La natura di atto inter vivos dello scioglimento della comunione ereditaria, è dimostrata poi confutando i medesimi argomenti posti a base dei precedenti arresti giurisprudenziali che avevano invece ritenuto di attribuire a tale atto la natura di atto mortis causa, non autonomo rispetto alla vicenda successoria.
Le SS.UU. ricordano che il dato caratterizzante dei negozi mortis causa è costituito dalla morte del de cuius, evento che determina la produzione degli effetti giuridici; il contratto di divisione ereditaria produce invece i suoi effetti indipendentemente da tale evento, essendo posto in essere dai coeredi condividenti: ciò lo caratterizza senz'altro come atto tra vivi.
In quest'ottica il contratto di scioglimento della comunione ereditaria (incidentale) non differisce in nulla dal negozio con il quale i comunisti procedono allo scioglimento della comunione ordinaria; quanto alla "natura", essendo entrambi contratti plurilaterali ad effetti reali con funzione distributiva, quanto agli "effetti", essendo entrambi negozi ad effetti reali che determinano la cessazione dello stato di contitolarità rispetto ad uno o più beni.
Con le accettazioni dell'eredità da parte dei coeredi il fenomeno successorio si è esaurito, secondo la Corte, sicché rispetto ad esso sono estranee le vicende negoziali successive come appunto la divisione. Ne emerge così la critica all'affermazione che l'atto di scioglimento della comunione ereditaria sia un "atto non autonomo rispetto alla vicenda successoria della quale costituirebbe l'evento terminale".
La divisione della comunione ereditaria non costituisce necessariamente l'esito della successione mortis causa ma una mera "eventualità", ben potendo infatti gli eredi decidere di restare in comunione. Inoltre il fatto che un negozio si inserisca nella vicenda successoria non implica affatto che esso debba essere qualificato mortis causa.
Altro argomento non condiviso dalle SS. UU. è quello che fa leva sulla "ritenuta" omogeneità tra la divisione ereditaria e la divisione operata dal testatore (art. 734 cod. civ.).
Poiché infatti a quest'ultima figura si ritengono pacificamente non applicabili gli articoli 40 e 46 citati, verrebbe a crearsi un'ingiustificata disparità di trattamento tra le due figure di divisione.
Le SS. UU. obiettano che l'omogeneità tra le due figure deve essere limitata al solo profilo funzionale dell'apporzionamento dei beni tra gli eredi, che nell'ipotesi dell'art. 734 cod. civ. avviene mediante le disposizioni testamentarie mentre nell'ipotesi della divisione ereditaria si verifica mediante contratto. Tale aspetto però non determina una parificazione degli atti giuridici che producono il medesimo risultato.
Mentre infatti la divisione ereditaria è posta in essere mediante un atto inter vivos, che scaturisce dalla volontà degli eredi, la divisione testamentaria ex art. 734 cod. civ. è posta in essere attraverso un atto mortis causa che scaturisce dalla volontà del de cuius e produce i suoi effetti ipso iure. Del resto, si aggiunge, poiché la finalità delle norme urbanistiche de quibus è quella di rendere i diritti reali sugli edifici abusivi "non negoziabili", ne discende che così come il testatore non poteva - quando era in vita- trasferire o dividere il bene abusivo, così anche i coeredi non potrebbero alienare o dividere i beni ereditari.
b) Il negozio di scioglimento della comunione ereditaria quale atto traslativo. Altro argomento confutato dalla pronuncia in esame, ricorrente nell'orientamento giurisprudenziale (e dottrinale) fino ad oggi consolidato, è quello basato sull'efficacia retroattiva della divisione.
L'impostazione tradizionale ritiene che l'effetto attributivo debba ricollegarsi alla vicenda ereditaria. L'art. 757 cod. civ. sancisce infatti che i coeredi devono reputarsi proprietari esclusivi fin dall'apertura della successione, e quindi "come se" non vi fosse mai stata una comunione tra gli stessi.
È direttamente dalla posizione giuridica del de cuius, quindi, che deriva la titolarità esclusiva dei
coeredi condividenti, e non invece dal negozio divisorio. Corollario di tale impostazione è che la divisione ha natura meramente dichiarativa, caratterizzata da efficacia retroattiva, con esclusione di ogni efficacia costitutiva e traslativa derivante dal contratto divisorio.
Le Sezioni Unite rigettano anche tale argomento che ritengono basato sul "dogma" della retroattività e dichiaratività del negozio divisorio.
Partendo dalla nozione di retroattività degli atti giuridici in generale, i giudici sottolineano che tale fenomeno si accompagni sempre agli effetti costitutivi dell'atto stesso, evidenziando che "non possono retroagire gli effetti di un atto che si limita a dichiarare o accettare una situazione giuridica già esistente". Retroagirebbero, invece, solo gli effetti di un atto destinato a cambiare ("immutare") la realtà giuridica, come avviene con la sentenza che risolve o annulla il contratto, produttiva di effetti costitutivi e non con quella che accerta la nullità del negozio che avrebbe effetti retroattivi.
Gli effetti retroattivi sarebbero propri, quindi, del negozio divisorio ma nell'accezione accolta dalle Sezioni Unite, secondo le quali in tale fenomeno sarebbe insito un "effetto costitutivo, sostanzialmente traslativo": con la divisione ogni condividente perde la ( com)proprietà sul tutto ( che prima aveva) e - correlativamente - acquista la proprietà individuale ed esclusiva sui beni a lui assegnati (che prima non aveva). In questo caso "sorgono dunque tante proprietà individuali laddove, prima, esisteva una comproprietà".
Le Sezioni Unite, in sostanza, non negano che la divisione eredi caria abbia effetti retroattivi, ma escludono che essa abbia natura dichiarativa o comunque accertativa, derivando invece proprio dalla retroattività la portata costitutiva (lo scioglimento della comunione), attributiva e distributiva.
I giudici relegano la retroattività della divisione ad un profilo esclusivamente economico, ed assimilano sul piano effettuale l'acquisto che il compartecipe consegue tramite la divisione a quello che egli potrebbe ottenere nel caso in cui acquistasse la proprietà esclusiva dello stesso cespite, in virtù di un normale negozio traslativo (ad es. compravendita), per volontà unanime dei coeredi.
3. Portata della sentenza.
Una lettura "a caldo" della sentenza n. 25021/2019 e il limitato spazio a disposizione, rendono opportuno tralasciare ogni valutazione ed indagine sulle ragioni che hanno indotto il Supremo Collegio ad abbandonare un orientamento giurisprudenziale uniforme, applicato da oltre sessant'anni in numerosissime decisioni (anche estranee alla materia urbanistica).
In un'ottica notarile è possibile però in questa sede segnalare alcune "incertezze interpretative", a fronte delle quali, in ogni caso, appare ragionevole assumere un atteggiamento equilibrato e allo stesso tempo prudente, senza che la nuova ricostruzione teorica dall'istituto operata dalle SS. UU. spinga i notai ad un immediato mutamento delle prassi operative, almeno fino a quando non si registreranno ulteriori pronunce che ne facciano o meno applicazione.
a) La rilevanza della decisione in esame quale "precedente". In quest'ottica deve essere ricordato che nel sistema giuridico italiano la rilevanza del precedente giurisprudenziale assume un ruolo e una portata vincolante diverso dai sistemi di common law.
Occorre chiedersi se la decisione sia o meno destinata a costituire un "precedente" vincolante per il notaio, anche per fattispecie giuridiche analoghe a quella decisa, al pari del giudice, chiamato successivamente a pronunciarsi su casi analoghi a quello del precedente.
Il precedente può avere effetti persuasivi di varia natura e di diversa intensità, lungo una scala che va da un grado massimo, in cui esso crea un vero e proprio obbligo per il giudice successivo di applicare la stessa ratio decidendi, sino ad un grado minimo, in cui ha un'efficacia soltanto illustrativa, ossia costituisce solo un esempio di una possibile decisione.
Proprio su questo punto la Cassazione, in relazione alla responsabilità civile del magistrato, ha stabilito che "la decisione del giudice difforme da precedenti orientamenti della giurisprudenza, non integra grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile, fonte di responsabilità ai sensi dell'art. 2, comma 3, lett. a), della 1. n. 117 del 1988 (nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla 1. n. 18 del 2015), atteso che il precedente giurisprudenziale, pur se proveniente dalla Corte di legittimità e finanche dalle Sezioni Unite, e quindi anche se è diretta espressione di nomofilachia, non rientra tra le fonti del diritto e, pertanto, non è di norma vincolante per il giudice" (Cass. S.U. 3 maggio 2019 n. 11747).
Sembrerebbe quindi che una decisione, per quanto dotata di una forza persuasiva anche molto rilevante, possa assurgere a precedente la cui vincolatività debba tuttavia essere circoscritta alle circostanze specifiche del singolo caso concreto e non sia estensibile ad altre fattispecie.
Deve essere quindi saggiamente considerato se la ricostruzione della natura giuridica della divisione ereditaria, come prospettata dal Supremo Collegio, rilevi in termini generali ovvero se quella ricostruzione debba intendersi circoscritta alla materia urbanistica, così come risultante dai principi di diritto enunciati. L'adesione alla prima opzione porterebbe, all'evidenza, la necessità di riconsiderare una molteplicità di interpretazioni di istituti e fenomeni poggianti sulla precedente ricostruzione della divisione ereditaria quale negozio retroattivo e dichiarativo.
b) Persuasività o meno delle argomentazioni e confutazioni di teoria generale del diritto utilizzate dalle SS. UU
È indubbio che la persuasività del precedente giurisprudenziale riposa, oltre che sull'autorevolezza del Consesso che l'ha pronunciato, anche sulla solidità delle argomentazioni prospettate.
In quest'ottica, guardando alla sentenza in esame, da alcuni passaggi della motivazione sembra trasparire- a parere di chi scrive - un certo margine di incertezza in ordine alle argomentazioni e confutazioni di teoria generale del diritto utilizzate.
Così, in via esemplificativa, per arrivare a sostenere che la divisione abbia natura traslativa, nel punto 5.3.1 della sentenza le SS. UU. sanciscono il parallelo tra retroattività e costitutività degli effetti degli atti, precisando che non possono retroagire gli effetti dell'atto che non mutano la realtà giuridica. Poiché la divisione ereditaria modificando la situazione giuridica preesistente è costitutiva e non dichiarativa produrrebbe effetti retroattivi.
È questo uno dei passaggi più oscuri della motivazione, ove si consideri che la stessa nozione di retroattività è stata autorevolmente considerata una "stranezza" che "ha suscitato e suscita contrasti interminabili".
È infatti diffuso convincimento degli interpreti che la retroattività degli effetti di un negozio si ricolleghi al carattere dichiarativo e non costitutivo dello stesso. Ad esempio, con riferimento al negozio di transazione, sulla cui natura costitutiva vi è generale consenso, si trova affermato che "la natura costitutiva della transazione, oggi condivisa in dottrina e in giurisprudenza, rende non più predicabile una efficacia retroattiva di essa, ipotesi che era invece ritenuta ammissibile sotto il previgente codice ... da coloro che attribuivano efficacia meramente dichiarativa alla transazione. Si ritiene quindi oggi che la transazione non sia retroattiva in senso tecnico ... ".
Le SS. UU. fanno discendere l'effetto traslativo della divisione ereditaria, dalla costitutività del negozio divisorio, con il quale sia attua il passaggio dalla comproprietà alla proprietà singola in capo al coerede. Il comproprietario, per effetto della divisione, diverrebbe titolare della proprietà individuale sui beni attribuiti, non diversamente da quanto avvererebbe se il cespite fosse stato acquistato dagli altri condividenti con una normale compravendita.
Ciò sembra stridere con la scelta del legislatore operata nell'art. 757 cod. civ., di caratterizzare la divisione come atto non traslativo tra i condividenti.
La ricostruzione delle SS. UU. deve essere quindi attentamente vagliata per comprendere come la divisione ereditaria possa determinare un effetto traslativo assimilabile a quello della compravendita (così ie SS.UU), se si considera che quell'effetto è proprio dei negozi di attribuzione patrimoniale onerosi, nei quali all'attribuzione in favore di un soggetto fa riscontro un'attribuzione a carico dello stesso, fenomeno che la sentenza riconduce ad un "piano puramente economico".
È lo stesso provvedimento al vaglio, d'altra parte, a far dubitare che il mutamento della situazione giuridica in capo al condividente venga determinato dal negozio divisorio. Sia quando afferma che la "vis retroactiva opera, tuttavia, solo sul piano dell'effetto distributivo proprio della divisione (il c.d. "apporzionamento"), ossia solo per quanto riguarda l'acquisto della titolarità dei beni assegnati (... ?)"; sia quando ritiene che con il negozio divisorio si procederebbe ad una mera "conversione", transitando lo stato di comproprietà a quello di proprietà esclusiva. Se di conversione si tratta il comproprietario non perderebbe invero né acquisterebbe alcunché; è solo la situazione giuridica originaria che si "trasforma".
Altro aspetto da considerare è l'illustrazione delle ragioni che a detta del S.C. giustificherebbero l'inclusione della comunione ereditaria tra gli atti soggetti alla comminatoria di nullità. Si afferma che ciò sarebbe coerente con la ratio legis e con la scelta del legislatore di contrastare gli abusi edilizi mediante sanzioni civilistiche che colpiscano la negoziabilità dell'immobile.
Se questa fosse la ragione, invero, le previsioni legislative farebbero sorgere notevolissime perplessità, perché non si comprende quale possa essere il motivo che abbia indotto il legislatore a costringere i soggetti a restare in comunione vietandone lo scioglimento, quando la "inalienabilità" potrà giocare nello stesso modo anche dopo la divisione.
c) Ricerca di percorsi interpretativi alternativi per la prassi notarile
Nel caso in cui si ritenga di sostenere un'applicazione generalizzata della sentenza in esame, anche al di fuori della materia urbanistica (e qui si ribadisce il caveat indicato al punto a) sulla vincolatività del precedente giurisprudenziale), andrebbe verificato se la nuova qualificazione della divisione ereditaria possa comunque incidere, quale "atto tra vivi ad effetti traslativi", su quelle fattispecie che il notaio incontra nella prassi professionale e che finora si basavano sulla tradizionale concezione della divisione quale atto ad effetti dichiarativi.
In questo caso il notaio sarebbe chiamato a ricercare criteri interpretativi alternativi rispetto a quello che poggiava storicamente sulla dichiaratività dello scioglimento della comunione ereditaria.
Potrebbe, ad esempio, continuare ad escludere l'applicazione alle divisioni ereditarie della disciplina dell'attestato di prestazione energetica (APE), previsto appunto per gli "atti traslativi" giusto quanto previsto dall'art. 6 D.lgs. n. 192/2005, facendo leva sull'argomento letterale della "gratuità", cui si riferisce il comma 2° del citato articolo (riguardo all'obbligo di dotazione) e all'"onerosità" dell'atto, di cui al comma 3° (riguardo all'obbligo di allegazione).
Il negozio divisorio, per quanto come affermato dalle SS. UU. caratterizzato da effetti traslativi, non potrebbe infatti ricondursi né alla prima categoria, poiché manca il depauperamento senza corrispettivo e, inoltre, al "trasferimento" del bene immobile al condividente non corrisponde un sacrificio patrimoniale a carico degli altri condividenti, da soddisfare per le rispettive quote; né alla seconda categoria, mancando la corrispettività tra le prestazioni, nel senso che la prestazione di una parte dovrebbe trovare remunerazione nella prestazione dell'altra, il che certamente non avviene nella divisione, da taluno qualificata come atto "neutro" sul piano economico- patrimoniale.
Il percorso interpretativo ora individuato per l'art. 6 del D.lgs. n. 192/2005, appare spendibile anche per altre disposizioni normative di cui il notaio è chiamato a fare applicazione, il cui discrimine è dato dalla natura onerosa o gratuita del trasferimento.
Si consideri ad esempio la disciplina in materia di proprietà coltivatrice, che impone di concedere la prelazione agraria a favore di determinati soggetti (art. 8 co. 1, L. 26 maggio 1965 n. 590) "in caso di trasferimento a titolo oneroso". La non applicabilità di questa disciplina all'atto di scioglimento della comunione ereditaria potrebbe pertanto continuare a sostenersi, anche perché sarebbe arduo all'esito delle operazioni divisionali rispettare "le parità di condizioni" da concedere al prelazionario, mancando nel negozio divisorio, come detto, quella corrispettività tra le prestazioni tipica dell'onerosità.
Alla stessa conclusione è possibile approdare anche riguardo alla prelazione urbana da concedersi al conduttore, tanto nell'ambito della locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione (artt. 38 e 39 L. 392/1978), in cui ricorre il medesimo riferimento letterale "al trasferimento a titolo oneroso" dell'immobile locato, quanto in quella prevista per le locazioni di immobili adibiti ad uso abitativo ( art. 3 co. 1 lett. g) L. n. 431/1998), in cui il riferimento è testualmente riconnesso alla "vendita" posta in essere dal locatore che farebbe sorgere la prelazione, e quindi al paradigma dei contratti traslativi a titolo oneroso.
Quanto detto per la prelazione agraria e urbana (esclusione della divisione ereditaria dal perimetro applicativo di quelle norme) non può non valere anche per la prelazione artistica, quando vengano in considerazione negozi di divisione ereditaria. In base all'art. 60 del Codice dei beni culturali (D.Lgs 22 gennaio 2004 n. 42), infatti, gli Enti ivi indicati hanno facoltà di acquistare in via di prelazione i beni culturali "alienati a titolo oneroso" al medesimo prezzo stabilito nell'atto di alienazione.
Va anche evidenziato, guardando alla ratio delle diverse norme richiamate, che queste sembrano avvinte da un unico filo conduttore, vale a dire la preoccupazione del legislatore che gli interessi tutelati vengano frustrati in occasione dell'uscita del bene dal patrimonio del disponente mediante un contratto oneroso.
Appare difficile, quindi, sostenere che nel caso in cui il bene è in comunione e venga diviso contrattualmente tra i coeredi, all'esito di questo negozio si verifichi l'uscita della proprietà del bene diviso dal patrimonio del condividente; e quindi si produca un mutamento di titolarità nella proprietà nel senso considerato dalle norme. Avvenuto lo scioglimento della comunione ereditaria, infatti, si avrà comunque una riconducibilità della titolarità del proprietario esclusivo alla precedente situazione giuridica goduta che, inizialmente esercitata in regime comproprietà, dopo la divisione viene "convertita" in proprietà esclusiva, restando inalterate le ragioni dei condividenti sia prima che dopo la divisione.
Come è stato evidenziato "l'identità tra comproprietà e proprietà solitaria è un presupposto indefettibile per la natura dichiarativa della divisione".
La circostanza che nella divisione non si verifichi, in senso tecnico, un mutamento nella titolarità dei beni divisi si spiega anche sul piano causale, non essendo riconducibile la funzione del negozio divisorio alla circolazione dei beni.
L'assenza di un fenomeno traslativo, d'altra parte, corrisponde alla comune opinione secondo cui l'alienazione comporta per il cessionario l'acquisto di un diritto che corrisponde ad un interesse prima inesistente.
Se si esclude dunque che nella divisone ereditaria si verifichi un fenomeno traslativo analogo a quello proprio dei contratti commutativi, appaiono privi di fondamento anche i dubbi sulla possibile incidenza della sentenza in esame sul regime degli "acquisti" compiuti dai coniugi coniugati in regime di comunione legale dei beni. Non si potrà ipotizzare che il coniuge non condividente possa beneficiare, all'esito delle operazioni divisionali, dell'acquisto del bene assegnato all'altro coniuge, erede condividente.
Come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, "la comunione legale tra i coniugi di cui all'art. 177 cod. civ. riguarda gli acquisti, cioè gli atti implicanti l'effettivo trasferimento della proprietà della "res" o la costituzione di diritti reali sulla medesima". Mancando nello scioglimento della comunione ereditaria quel tipo di trasferimento, nessun "acquisto" sembra configurabile in capo al coniuge estraneo alla comunione ereditaria. La divisione non apporta un incremento patrimoniale di cui rendere partecipe l'altro coniuge.
Del resto la divisione ereditaria, attuata in costanza di matrimonio, dal coniuge che vi partecipa in forza di titoli (ereditari) di cui alle lett. a) e b) dell'art. 179 cod. civ. , non può che concernere beni aventi natura personale, sia che tale natura venga riferita all'anteriorità del titolo rispetto alla nascita della comunione legale ( come nel caso in cui l'apertura della successione e la formazione della comunione ereditaria risalga a quel periodo giusto l'art. 179 lett. a)), sia quando il titolo di provenienza successoria, si sia formato in costanza di matrimonio (giusto l'art. art. 179 lett. b) cod. civ.).
In questi casi non potrebbe infatti ragionevolmente sostenersi che si applichino le norme sul regime patrimoniale dei coniugi, riguardanti una medesima vicenda giuridica - l'acquisto di beni ereditari in comproprietà con altri coeredi - a seconda che essa si verifichi prima o dopo il matrimonio. Sarebbe come ammettere un doppio regime circolatorio dei beni, in base all'adesione o meno ad una opzione interpretativa in merito al negozio di divisione ereditaria.
Né sembra possibile ipotizzare che il coniuge non condividente intervenga all'atto di divisione stipulato dai coeredi, per rendere la dichiarazione prevista dall'art. 179, comma 2 c.c., che il legislatore prevede invece, qui sì testualmente, per altre ipotesi.
L'esclusione della caduta in comunione legale del bene "acquistato" in sede di divisione ereditaria, infine, trova conforto nella ratio dello stesso art. 177 lett. a) cod. civ. che esclude tale effetto per "acquisti relativi a beni personali", ciò nella prospettiva del legislatore di mantenere integro il patrimonio del coniuge che deve svilupparsi secondo la sua naturale evoluzione.
II - I riflessi della sentenza delle Sezioni Unite sulla tassazione della divisione (Annarita Lomonaco)
La posizione assunta dalle Sezioni Unite con riguardo alla «natura specificativa, attributiva [della divisione, ndr], che impone di collocarla tra gli atti ad efficacia tipicamente costitutiva e traslativa» non ha riflessi sui criteri finora applicati ai fini della tassazione della divisione nell'ambito dell'imposta di registro, in ragione della specifica disciplina dettata dal legislatore.
Infatti, seppur è vero che l'art. 34 del d.p.r. 26 aprile 1986, n. 131, sembra occuparsi della divisione solo se essa comporti dei conguagli, a ben vedere - prevedendo, per tale ipotesi, l'assimilazione alla vendita «limitatamente alla parte [della quota di fatto, ndr] eccedente» la quota di diritto, con applicazione delle aliquote stabilite per i trasferimenti mobiliari ed immobiliari (secondo il meccanismo di cui all'art. 34, comma 2, citato) - non vi può essere alcun dubbio che a contrario «la divisione senza conguaglio (reale o presunto/fittizio) non sconta (non può scontare) l'imposta di trasferimento e quindi per stabilirne la tassazione non si può attingere alle disposizioni rivolte ai "trasferimenti"» (così lo studio n. 123-2018/T, Petternti, Divisione ed accertamento di valore, approvato dalla Commissione Studi Tributari il 12 ottobre 2018).
L'esclusione, legislativamente disposta, della tassazione della divisione quale atto traslativo (salvo quanto stabilito dall'art. 34 cit.) trova conferma anche nell'ultimo comma dell'art. 34, in quanto Iafictio iuris, volta a considerare come un'unica comunione le masse plurime 'riunificate' da un ultimo acquisto di quote derivante da successione a causa di morte, si giustifica proprio per evitare, in un'ottica ritenuta tradizionalmente agevolativa, la tassazione dello scioglimento delle cd. masse plurime secondo le regole degli atti traslativi. E ciò non può che presupporre la soggezione dello scioglimento della comunione (unica) ad una minore tassazione.
Se, dunque, la disciplina generale applicabile alla divisione agli effetti dell'imposta di registro non è quella degli atti traslativi, occorrendo stabilire a quale categoria fare riferimento per individuare l'aliquota applicabile, si è sempre pacificamente ritenuto «valorizzandone la funzione di atto che trasforma la pars quota in pars quanta» che «proprio in considerazione di tale carattere e del tradizionale inquadramento come contratto di natura dichiarativa (in dipendenza di quanto stabilito dall'art. 757 c.c.), seppur con effetti distributivi-costitutivi, l'unica disposizione del TUR che risulta applicabile è quella relativa agli atti di natura dichiarativa (art. 3 Tariffa Parte prima TUR)» (studio n. 123-2018/T cit.).
Affermazione che trova conferma anche nella circ. Agenzia delle entrate 29 maggio 2013, n. 18/E, par. 2, secondo la quale «il legislatore tributario, ai fini dell'imposta di registro, considera la divisione come atto avente natura dichiarativa, sottoponendo questo negozio giuridico all'aliquota dell'1% (articolo 3 della tariffa, parte prima, allegata al TUR). Una specifica disciplina è prevista... nel caso in cui l'atto di divisione dia luogo a conguagli».
Una tale conclusione non può che restare ferma anche alla luce della sentenza delle Sezioni Unite in esame, in quanto, a prescindere dalla considerazione che sotto il profilo civilistico lo scioglimento della comunione «dà luogo ad un mutamento della situazione giuridico-patrimoniale del contribuente» avendo «causa attributiva e distributiva, in quanto ciascun condividente può divenire l'unico titolare di questo o di quel bene ricadente in comunione solo se vi sia stato un procedimento (contrattuale o giudiziale) che abbia determinato, con effetti costitutivi, lo scioglimento della comunione», ciò che rileva sotto il profilo fiscale è che «il passaggio dalla contitolarità pro quota dei beni comuni alla titolarità esclusiva della porzione non si traduce in un incremento patrimoniale per il condividente» (così la stessa sentenza in commento).
Tenuto conto, quindi, che nella divisione la capacità contributiva si manifesta solamente in via indiretta, in quanto gli indici legati alla modificazione quantitativa del patrimonio risalgono più propriamente all'atto di provenienza, atto tra vivi o successione a causa di morte (come emerge anche dal riferimento a questi ultimi contenuto nell'art. 34 comma l, ultimo periodo, per la determinazione del valore della massa comune), l'effetto distributivo della divisione assume ai fini dell'imposta di registro una portata assimilabile all'ambito degli atti dichiarativi ( ovviamente fatte salve le previsioni dell'art. 34 cit.), intesi quali "atti che possono produrre un rafforzamento, una specificazione o un affievolimento delle situazioni giuridiche" preesistenti".
Resta da valutare, e sarà successivamente oggetto di approfondimenti da parte del Settore Studi, se le conclusioni delle Sezioni unite con riguardo alla natura della divisione portino a dover riflettere sulla (ir)rilevanza finora riconosciuta in via interpretativa alla divisione ad altri effetti tributari in ragione della natura dichiarativa (si pensi, ad esempio, alle plusvalenze ex art. 67 d.pr. n. 917/1986, o all'imposta sul valore aggiunto), pur dovendosi avere presente, comunque, che la retroattività e la funzione distributiva (seppure costitutiva) connotano l'atto in questione in modo peculiare rispetto agli atti traslativi.
III - Le Sezioni Unite intervengono sulla divisione (giudiziale, endoesecutiva e endoconcorsuale) di immobili abusivi (Ernesto Fabiani- Luisa Piccolo)
1. I termini del problema: la delimitazione del perimetro applicativo del regime urbanistico degli "atti tra vivi" e della disciplina derogatoria prevista per la vendita forzata rispetto alla divisione giudiziale, endoesecutiva e endoconcorsuale.
Com'è noto, gli artt. 40 della legge n. 47 del 1985 e 46 del d.P.R. 380/2001 vietano la stipulazione di "atti tra vivi" aventi per oggetto diritti reali relativi ad edifici (o a loro parti) dai quali non risultino gli estremi della concessione edilizia o della concessione in sanatoria o ai quali non sia allegata copia della domanda di sanatoria corredata dalla prova del versamento delle prime due rate di oblazione (c.d. "menzioni urbanistiche").
Al contempo, però, le medesime disposizioni (artt. 46, comma 5, d. P.R. 380/2001 e 40, commi 5 e 6, alla L. n. 4 7 /1985) escludono la nullità con riferimento agli "atti derivanti da procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali".
Da lungo tempo gli sforzi della dottrina e della giurisprudenza sono conseguentemente protesi nella direzione di delimitare l'ambito di applicazione: per un verso, del suddetto divieto, fondamentalmente incentrato sulla nozione di "atto tra vivi"; per altro verso, della suddetta disciplina derogatoria, fondamentalmente incentrata sulla nozione di "atti derivanti da procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali".
Particolarmente controversa, in quest'ambito, è la disciplina della divisione, ove entrambi i suddetti profili vengono in rilievo nell'ipotesi in cui la stessa sia realizzata nelle forme della divisione giudiziale nonché in quelle della divisione (non autonoma ma) sorta nell'ambito di una procedura esecutiva - espropriazione di beni indivisi - (divisione cd. endoesecutiva) ovvero nell'ambito di una procedura concorsuale (divisione cd. endoconcorsuale).
2. Il dibattito dottrinale e giurisprudenziale
Con riferimento alla divisione giudiziale, nell'ambito del dibattito dottrinale suscitato dalle disposizioni appena più sopra richiamate, ha assunto un ruolo di centrale importanza, anche in precedenti interventi dell'Ufficio Studi del CNN, la qualificazione della natura della divisione nella peculiare ipotesi in cui questa, a seconda delle differenti possibili strade che può intraprendere il giudizio divisorio a norma dell'art. 784 e ss., venga disposta dal giudice con ordinanza in assenza di contestazione delle parti.
Maggiore risolutezza connota alcune pronunzie della Corte di legittimità, la quale ha talvolta ritenuto applicabile alla divisione giudiziale la normativa urbanistica prevista per gli atti tra vivi senza indugiare nel discernere tra i possibili snodi del giudizio divisorio, ritenendo decisiva l'argomentazione in forza della quale, l'opposta conclusione renderebbe «oltremodo agevole l'elusione, da patte dei condividenti, di una norma imperativa, rivolgendosi al giudice per ottenere lo scioglimento della comunione anche quando non vi sia controversia sull'esigenza di porre fine allo stato di comunione».
Con riferimento all'ipotesi in cui la divisione si svolga in assenza di contestazioni, parte della dottrina ha ricondotto il risultato del processo divisorio alla volontà delle parti, qualificando la suddetta non contestazione in termini di negozio omissivo o di volontà presunta: in quest'ottica, l'ordinanza con la quale il giudice dichiara esecutivo il progetto di divisione non contestato non avrebbe natura decisoria e assolverebbe alla funzione di omologare il negozio giuridico inter partes attribuendogli esecutività, mentre il fondamento negoziale sottrarrebbe l'ordinanza ai mezzi di impugnazione dei provvedimenti del giudice e assoggetterebbe il negozio sottostante ad essa, ove viziato, ai mezzi di impugnativa negoziale (azioni di nullità, annullabilità, rescissione per lesione).
Al contempo, l'attribuzione della natura negoziale all'ordinanza che dispone la divisione in assenza di contestazioni, ha indotto altresì questa dottrina a ricondurre questa ipotesi nell'ambito degli "atti tra vivi" 31 cii cui alle disposizioni in esame, con conseguente applicabilità delle relative prescrizioni di forma e della relativa nullità. Alla divisione che si svolge in assenza di contestazioni, in forza della natura prettamente negoziale, tanto la dottrina quanto l'Ufficio Studi, riconnette l'istituto della conferma con atto notarile, negata invece con riferimento alla divisione decisa con sentenza in presenza di contestazioni.
In precedenti contributi dell'Ufficio Studi del CNN, si è altresì evidenziato come non si possa escludere la comminatoria della nullità in forza della ritenuta natura "giudiziale" della divisione, stante la sussistenza di provvedimenti giudiziali con riferimento ai quali, secondo l'impostazione largamente prevalente, detta nullità trova applicazione (come nel caso, in particolare, della sentenza di cui all'art. 2932 c.c. o quella di cessazione degli effetti civili del matrimonio). In effetti, per taluni provvedimenti giudiziali, come le sentenze ex art. 2932 cc. o i provvedimenti resi in sede di separazione e divorzio, si ritiene applicabile la disciplina propria degli atti privati sulla scorta del principio secondo cui non si può ottenere con un provvedimento giudiziale ciò che è vietato all'autonomia delle parti, soprattutto laddove si ritenga che il risultato finale abbia portata equivalente. Alla stregua di tale considerazione, secondo alcuni, dovrebbe pervenirsi al rigetto della domanda di divisione in caso di immobile privo dei requisiti della commerciabilità per l'illiceità o l'impossibilità giuridica relativa all'oggetto del giudizio. Ciò vale soprattutto con riferimento all'ipotesi in cui sia necessario procedere alla vendita del cespite abusivo ereditario in quanto non divisibile in natura, poiché, ritenendo diversamente, «si giungerebbe (...) all'assurdo che un contratto in astratto non stipulabile, diverrebbe lecito solo perché il notaio viene in ciò autorizzato dal giudice, che in tal modo assicurerebbe alle parti un risultato vietato all'autonomia privata».
Analogamente si è ritenuto, in dottrina, che il giudice dovrebbe rigettare la domanda di divisione giudiziale di un bene abusivo per l'illiceità ovvero per l'impossibilità giuridica relativa dell'oggetto del giudizio, ... perché l'autorità giudiziaria non può produrre effetti sostanziali preclusi all'autonomia privata.
Con riferimento all'espropriazione di beni indivisi in cui si dia luogo alla vendita, un precedente studio della Commissione Esecuzioni Immobiliari e Attività Delegate ha ritenuto «certamente possibile all'aggiudicatario/assegnatario presentare la domanda di sanatoria in quanto lo scioglimento della comunione, in questo specifico caso, è una delle ulteriori conseguenze dell'esecuzione immobiliare e la vendita del bene indiviso può configurarsi (anche) funzionale all'attuazione coattiva delle ragioni del credito per cui si procede in sede esecutiva».
Con riferimento alla divisione endoesecutiva, un altro studio della Commissione Esecuzioni Immobiliari e Attività Delegate del CNN39, pur non prendendo posizione, ha evidenziato una possibile interpretazione estensiva della disciplina derogatoria avente ad oggetto la vendita forzata tendente a far leva sulla ratio della stessa, ravvisata, più che in una speciale tutela del credito, nella natura coattiva di questa peculiare ipotesi di vendita, in forza della quale detta deroga, salva la valutazione di volta in volta della fattispecie concreta, ben potrebbe trovare applicazione anche in altre ipotesi di ipotesi di vendite giudiziali anch'esse connotate dalla suddetta coattività.
Posizioni restrittive sono state espresse dalla giurisprudenza di merito secondo la quale la disciplina derogatoria in esame si riferisce solo alle vendite disposte nell'ambito delle procedure esecutive, considerato, per un verso, il carattere eccezionale di questa disciplina, e per altro verso, l'autonomia del giudizio divisorio rispetto al procedimento di esecuzione.
3. L'intervento delle Sezioni Unite con riferimento alla divisione giudiziale e alla divisione endoesecutiva ed endoconcorsuale
Questo, fondamentalmente, il contesto in cui si inserisce l'intervento delle Sezioni Unite, la cui pronunzia analizza, tra le altre questioni interpretative, quella dell'applicabilità alla divisione giudiziale della normativa prevista per le divisioni convenzionali in materia urbanistica, nonché quella della legittimità o meno della divisione di un edificio abusivo che si renda necessaria nell'ambito dell'espropriazione di beni indivisi (divisione c.d. "endoesecutiva") o nell'ambito delle procedure concorsuali (divisione c.d. "endoconcorsuale").
In ordine al regime urbanistico della divisione giudiziale, la sentenza enuncia il seguente principio di diritto: «quando sia proposta domanda di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 46 e dalla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, comma 2, costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell'azione ex art. 713 c. c., sotto il profilo della ''possibilità giuridica", e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell'ambito della loro autonomia negoziale. La mancanza della documentazione attestante la regolarità edilizia dell'edificio e il mancato esame di essa da parte del giudice sono rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio».
Tale epilogo interpretativo è fondato:
a) sull'orientamento giurisprudenziale di legittimità secondo cui le disposizioni in materia urbanistica si applicano anche alle divisioni giudiziali", tesi peraltro consonante con l'indirizzo interpretativo enunciato in tema di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c42.;
b) sull'esigenza, sottesa a tale orientamento, dell'ordinamento giuridico di impedire «che le parti, attraverso il ricorso al giudice, conseguano un effetto giuridico ad esse precluso per via negoziale, così aggirando il complesso sistema di sanzioni posto a tutela dell'ordinato assetto del territorio»;
c) sulla ritenuta natura della regolarità edilizia del fabbricato in comunione di «presupposto giuridico della divisione giudiziale» e più precisamente, di «condizione dell'azione ex art. 713 c.c. sotto il profilo della "possibilità giuridica"».
In ordine alla divisione endoesecutiva o endoconcorsuale di immobili abusivi, ai sensi del primo comma dell'art. 384 del codice di rito, le Sezioni Unite enunciano il seguente principio di diritto: «in forza delle disposizioni eccettuative di cui all'art. 46, comma 5 del d.P.R. n. 380 del 2001 e all'art. 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985, lo scioglimento della comunione (ordinaria o ereditaria) relativa ad un edificio abusivo che si renda necessaria nell'ambito dell'espropriazione di beni indivisi (divisione cd. "endoesecutiva") o nell'ambito del fallimento (ora, liquidazione giudiziale) e delle altre procedure concorsuali (divisione c.d. "endoconcorsuale" è sottratta alla comminatoria di nullità prevista, per gli atti di scioglimento della comunione aventi ad oggetto edifici abusivi, dall'art. 46, comma 1, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e dall'art. 40, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47».
Il Supremo collegio è giunto a tale approdo interpretativo in ragione, fondamentalmente:
a) della intervenuta riforma dell'art. 600 c.p.c., la quale, nell'accentuare il nesso di strumentalità necessaria che avvince il giudizio divisorio al processo espropriativo, avrebbe sostanzialmente modificato i termini del rapporto intercorrente fra divisione ed espropriazione forzata, tradizionalmente ricostruito in termini di autonomia del giudizio di divisione rispetto a quello esecutivo;
b) della ritenuta esclusione del carattere eccezionale delle norme di cui agli artt. d.p.r. n. 380 del 2001, art. 46, comma 5 e alla l. n. 47 del 1985, art. 40, commi 5 e 6 (in quanto detta disciplina derogatoria, lungi dal contrastare con la ratio legis posta a fondamento della sanzione di nullità, si collocherebbe proprio nel solco della detta ratio normativa e non avrebbe ragion d'essere rispetto agli atti strumentali all'espropriazione forzata intrapresa nei confronti del proprietario del fabbricato abusivo);
c) dell'interpretazione letterale delle disposizioni m esame, incentrata, più in particolare, sull'utilizzazione:
cl) del plurale nella espressione "Le nullità di cui al presente articolo non si applicano( ... )", contenuta negli artt. 46, comma 5, D.P.R. n. 380 / 2001, e nell'art. 40, comma 5, legge 47/85 e sul carattere generale e onnicomprensivo di tale rinvio, significativi del fatto «che il legislatore ha inteso riferirsi all'intera serie degli atti colpiti dalla sanzione della nullità ai sensi della medesima disposizione»;
c2) dell'espressione "atti derivanti da procedure esecutive immobiliari", con cui il legislatore «mostra di volersi riferire ad un novero di atti più ampio di quelli facenti parte stricto sensu della procedura di espropriazione forzata immobiliare. Tale locuzione, indubbiamente, è tale da includere non solo le vendite poste in essere nell'ambito della procedura esecutiva, ma anche le divisioni disposte, con separato giudizio, nell'ambito (e previa sospensione) del medesimo procedimento esecutivo»;
d) della ratio informativa delle disposizioni eccettuative in discorso, che converge con lo scopo legislativo di massimizzare il risultato della vendita forzata, «laddove esse prevedono, in favore dell'aggiudicatario dell'immobile abusivo, la riapertura dei termini per presentare domanda di sanatoria dell'abuso (quando consentita)».
4. Luci ed ombre nella pronuncia delle Sezioni Unite
La pronuncia delle Sezioni Unite segna un momento di notevole novità nell'attuale panorama giurisprudenziale nella parte in cui ritiene decisivo, ai fini della risoluzione della problematica in esame con riferimento alla divisione cd. endoesecutiva o endoconcorsuale, il rapporto intercorrente fra quest'ultima e, rispettivamente, la procedura esecutiva o concorsuale. Mentre si limita, invece, sostanzialmente a recepire l'indirizzo giurisprudenziale già espresso da precedenti pronunce di legittimità con riferimento alla divisione giudiziale, in relazione alla quale continua, dunque, a prescindere, ai fini della individuazione della soluzione più corretta da dare alla problematica in esame:
- per un verso, dalle differenti possibili modalità di svolgimento e conclusione del giudizio divisorio, invece valorizzate, con importanti ricadute pratiche anche al di là della disciplina urbanistica, da quella prospettiva dottrinale che tende a far leva sulla natura negoziale della divisione in assenza di contestazione delle parti;
- per altro verso, dall'approfondimento dei rapporti fra le previsioni testualmente dettate per gli "atti tra vivi" e le ipotesi in cui il "trasferimento", la "costituzione" o lo "scioglimento della comunione di diritti reali" relativi ad "edifici, o loro parti" o "terreni" avvenga per effetto di un provvedimento giudiziario, in relazione ai quali si limita esclusivamente ad invocare il principio, già affermato con riferimento all'ipotesi di cui all'art. 2932 c.c., in forza del quale non è possibile conseguire in via giudiziale ciò che è fatto oggetto di espresso divieto con riferimento alla via negoziale.
La prospettiva innovativa con la quale viene affrontata la problematica in esame con riferimento alla divisione cd. endoesecutiva o endoconcorsuale è di grande interesse, come confermato anche dallo studio approvato dalla Commissione Esecuzioni Immobiliari e Attività Delegate del CNN in precedenza richiamato, ma l'iter argomentativo seguito lascia insoddisfatti e, conseguentemente, apre ineliminabili prospettive di indagine e di approfondimento della tematica che ci occupa.
L'interpretazione letterale e la ritenuta intervenuta modificazione dei rapporti fra divisione e processo esecutivo per effetto della riforma dell'art. 600 c.p.c. (che peraltro, come già evidenziato, non trova riscontro in un panorama dottrinale tendente a riaffermare, a tutt'oggi, la tradizionale autonomia del giudizio di divisione rispetto a quello di espropriazione) non appaiono argomenti decisivi, mentre viene totalmente pretermesso il profilo attinente alla ratio sottesa alla suddetta disciplina derogatoria, ad avviso di chi scrive decisiva per delimitarne i relativi confini.
Non si vede, infatti, come possa essere delimitato l'ambito di applicazione della disciplina derogatoria in esame senza stabilire quale sia la ratio giustificatrice della esclusione, da parte del legislatore, della nullità con riferimento agli "atti derivanti da procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali".
Nei circoscritti confini di questa nota basti evidenziare come detta ratio non può essere ravvisata nella natura giudiziale del provvedimento cui è riconducibile l'effetto traslativo.
Conformemente a quanto già evidenziato, esistono, infatti, ipotesi di provvedimenti giudiziali in cui, secondo dottrina e giurisprudenza assolutamente prevalenti, la nullità in esame è applicabile.
A ben vedere talune di queste ipotesi non sono neanche prive di una dimensione coattiva, come la sentenza che tiene luogo del contratto di cui all'art. 2932 cc, la quale, sebbene presenti una controversa natura, possiede degli indubbi profili di coattività. Eppure, secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, è soggetta all'applicazione della disciplina in materia urbanistica, compresa la comminatoria della nullità dell'atto in ipotesi di sua violazione.
Appare conseguentemente riduttivo cogliere la ratio della disciplina derogatoria in esame esclusivamente nella coattività, che indubbiamente connota la vendita forzata, quanto meno ove sia intesa, in termini restrittivi, nel senso che la vendita avviene contro la volontà del soggetto obbligato.
Appare plausibile ritenere che il legislatore abbia ritenuto opportuno escludere dall'ambito di applicazione della nullità in esame dette ipotesi in quanto, non solo indubbiamente connotate dalla coattività (intesa nei termini restrittivi di cui sopra), ma anche espressione della tutela del credito (e segnatamente della responsabilità patrimoniale di cui all'art. 2740 c.c.) - come in parte riconosce anche la decisione in commento -, oltre che oggettivamente difficilmente suscettibili di strumentalizzazione per aggirare il divieto a cui presidio è prevista la sanzione della nullità (a differenza di quanto accade in altre ipotesi, comunque connotate da coattività, come quella del trasferimento realizzato in forza di sentenza emessa ai sensi dell'art. 2932 c.c.).
In altri termini, con riferimento alla disciplina urbanistica, nelle ipotesi di vendite coattive, l'elemento della tutela del credito sembrerebbe rilevare non solo sul piano dello scopo del processo espropriativo, peraltro di rilievo costituzionale, ma anche su quello della struttura: rappresenta l'elemento che, unitamente al carattere coattivo della vendita forzata, giustifica l'esclusione dall'ambito di applicazione della nullità in esame e rende oggettivamente difficilmente percorribili eventuali aggiramenti del divieto di cui si discute.
Se così è, resta peraltro non indagata dalla pronuncia in esame neanche la prospettiva, di crescente interesse da parte della giurisprudenza e della dottrina - seppur sotto profili differenti da quello in esame -, della equiparabilità della vendita disposta in sede esecutiva a quella disposta nel giudizio di divisione endoesecutiva, onde conseguentemente verificare, anche sotto questo profilo, l'applicabilità a quest'ultima della disciplina derogatoria prevista per la vendita forzata.
In definitiva, sembrerebbe eccessivamente semplificante la prospettiva fatta propria dalle Sezioni Unite tendente a risolvere la complessa ed articolata problematica in esame esclusivamente sulla base dell'interpretazione letterale della normativa derogatoria in tema di vendita forzata e del ritenuto rinnovato rapporto di strumentalità fra divisione (cd. endoesecutiva) e processo esecutivo in forza della riforma dell'art. 600 c.p.c. Anche se, sembrerebbero comunque sussistere significative argomentazioni, in precedenza evidenziate - ancorché nei circoscritti confini di una nota "a prima lettura" -, per condividere le conclusioni cui le stesse sono pervenute con riferimento alla divisione cd. endoesecutiva e endoconcorsuale.
Archivio news